INSEGNARE L’ARTE NON E’ UN GIOCO PER LETTERATI, NE’ PER IMPROVVISATI

Nella cultura popolare esisteva l’adagio “impara l’arte e mettila da parte”, una forma antesignana di accumulo di competenze, o, come direbbero i pedagogisti di oggi, del “saper fare”.

Aspetti del significato di questo detto non sono tutti condivisibili: imparare un’arte che prima o poi potrebbe servirti e che nel frattempo metti in un cassetto. Se applicassimo questo pensiero ad un giovane che vuol fare l’artista, infiammato dalla motivazione del palco o della camera, l’idea di poter mettere via la sua arte, una volta appresa, certamente non può essere per lui consolatorio. Del resto fa il paio con l’idea di qualcosa di utile ma non necessario. Per qualcuno, invece, imparare un’arte è una vera e propria necessità, così impellente che se ne farebbe una ragione di vita, prima ancora che un fatto di mera utilità.

Tuttavia, digressioni a parte, un’attenzione speciale a chi deve imparare l’arte c’è sempre stata e oggi viene declinata in diversi modi e pensieri. Ma cosa si dice invece di chi dovrebbe insegnarla? Ripartiamo dall’inizio: l’arte è “saper fare”, o meglio è soprattutto questo. Da qui ed in modo semplice deduciamo che un’arte è meglio che la insegni chi “sa fare” e non semplicemente “chi sa”.

Il campo da cui io guardo al tema è quello artistico, ma altre forme di arte, anzi, di artigianato possono aiutarci a comprendere ancor meglio il senso di ciò che asserisco. Se volessi imparare a modellare un pezzo di legno, non andrei da un agronomo, né da un biologo, né da un ingegnere o da un architetto, che nonostante la loro laurea, non potranno dirmi nulla della lavorazione in termini pratici: mi insegneranno, ad esempio, tutto ciò che c’è da sapere sull’insieme dei tessuti vegetali che costituiscono il tronco, i rami e le radici di alberi e arbusti; della loro composizione e così via. Andrei da un falegname. Magari uno bravo!

Eppure questo equivoco, nel campo dell’arte, ogni tanto si fa strada. Ad esempio: un laureato in Discipline delle Arti, della Musica e dello Spettacolo (meglio conosciuto con l’acronimo DAMS) non potrà (o non dovrebbe) insegnare l’arte della recitazione, della ripresa con la camera, della regia o, peggio, della conduzione di un gruppo di alunni che amano il teatro, il cinema e così via. Certamente quel laureato potrà avere una visione più vicina al “sapere della scena” di un laureato in matematica; ma le sue competenze in ordine al “saper fare” non potranno mai eguagliare quelle in possesso degli artigiani: gli attori e i registi.

Un equivoco di questo tipo non è da poco conto: anzitutto andrebbe spiegato ai tanti giovani che, sognando la scena, si iscrivono al DAMS; ma poi andrebbe anche delucidato ai diversi Dirigenti della Pubblica Amministrazione che, convinti che la laurea sia una garanzia, affidano a questa tipologia di esperti corsi di recitazione e allestimenti di spettacoli. Naturalmente nella buona fede e nell’obiettivo comune di formare al meglio gli alunni.

Segnatamente parlo dei diversi progetti delle scuole italiane, che con lungimiranza negli intenti, vedono, nel teatro, un’importante occasione di formazione, fino ai più noti progetti PON, con i quali le Istituzioni scolastiche italiane gestiscono complessivamente un considerevole patrimonio economico fornito dalla Comunità Europea per migliorare le competenze base dei propri alunni.

Se questo vale per un laureato al DAMS ancor di più vale per un laureato in Lettere e Filosofia, che, a differenza del collega, forse avrà sostenuto solo un esame di storia del teatro o del cinema.

In modo estensivo, andrebbe riconsiderato anche l’insegnamento di materie come “leggere” e “parlare” che, a mio avviso, non possono essere insegnate dai docenti con l’attuale preparazione teorica.

Nella mia carriera di insegnante di recitazione, spesso ho incontrato docenti di lingua italiana o maestri, coltissimi, che, però, non sapevano leggere, o meglio, leggevano distintamente le parole, ma lo facevano in modo non funzionale ad una comunicazione efficace, ancorché spesso e volentieri con un italiano sufficientemente lontano, nei suoni, dall’italiano “nazionale” e quindi condivisibile su un piano tecnico-accademico.

Allo stesso tempo, non ho quasi mai incontrato un giovane che sapesse leggere, anche quando questi era capace di scrivere! Perché, appunto, sono competenze ricorrenti ma diverse, che richiedono tecniche differenziate. Leggere un testo in “modo grammaticale” non vol dire saper leggere, soprattutto se ci riferiamo alla lettura ad alta voce.

Altresì l’insegnamento dell’arte, che purtroppo non è tutta governata da albi e regole stringenti, viene eseguita da persone che non solo non sono laureate; ma che hanno come proprio background formativo una semplice passione amatoriale. Mi servirò di un ultimo esempio per far comprendere questo passaggio e la sua importanza anche in discipline che sembrano appartenere solo al divertimento e al disimpegno. Se la danza classica viene insegnata da docenti non preparati, la pratica sbagliata può creare danni seri e irreparabili all’apprendimento e soprattutto al corpo. Ginocchia rovinate, posture sballate, piedi rotti e quant’altro.

La medesima cosa, sia in termini di apprendimento che fisici, accade a chi impara a recitare da insegnanti autodidatti o improvvisati.

Per queste ragioni, rifondare, innanzitutto concettualmente e poi pedagogicamente il ruolo di chi insegna l’arte, sarebbe un traguardo di civiltà e progresso.

Maurizio Ciccolella

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