MAURIZIO CICCOLELLA – “CHE FINE HA FATTO IL BELLO”?

Che fine ha fatto il bello?

“Che fine ha fatto il bello” credo sia una delle principali domande che qualsiasi artista si pone quando accende una TV o, peggio, naviga sui social.

Il nemico giurato dell’arte teatrale, ad esempio, era, fino a 10 anni fa, la TV. Quando questa aveva già smesso di proporre trasmissioni, costruite attorno a contenuti di spessore, con professionisti preparati. Nessuno immaginava che sarebbe arrivato un nuovo “mostro”, ben peggiore, e maggiormente fagocitante: il “web social”.

E perché peggiore?
Quello che ogni persona educata al bello, alla ricerca del contenuto, alla creazione della forma, vede, ogni giorno, è la possibilità che chiunque possa essere artista, anche solo per un pomeriggio, ma famoso a livello planetario. In effetti, se pensiamo che l’arte sia la più alta espressione di democrazia, non dovrebbe farci storcere il naso; tuttavia, se in TV, una qualche forma di selezione poteva avvenire anche in ragione dei limiti oggettivi del mezzo stesso, sui social davvero tutti possono “fare qualcosa”.

Basta uno smartphone, un bagno, possibilmente squallido, e qualcosa da esibire, che non sia intelligente.

Il comune denominatore della contemporaneità è diventato il “trash”. Una rincorsa ad essere più brutti, più “osceni” senza essere veramente provocatori, più amatoriali, con la pretesa di mostrarsi e non mostrare.

Il punto cruciale di questo fenomeno è il séguito: lo stesso, o forse quintuplicato, che poteva avere la TV, mentre i teatri, piano piano, si svuotavano, fino ad essere chiusi, o addirittura, come nel caso celeberrimo di Brindisi, abbattuti.

Lungi dall’essere bacchettoni, si dovrebbe accettare che il gusto sia cambiato; eppure un po’ di amarezza, non per la perdita del bello, ma per la mancanza di ricerca di quest’ultimo, un po’ si fa strada. Sentimento che si rinforza quando, pur non volendo, si è bombardati da immagini e video, che non raccontano nulla se non la “decadenza” come epifania. Immagini e video che raccolgono séguiti iperbolici, quando, invece, le forme di arte sono più relegate al ghetto degli “intenditori”.

Allora, ci si dovrebbe affrancare dalla “guerra dei numeri” e forse iniziare a pensare che c’è un rapporto inversamente proporzionale tra “bello” e “noto”? Ma l’arte deve pur sempre sopravvivere e ha bisogno di follower!

Per queste ragioni, oggi, vale ancora di più pensare alla formazione: all’educazione del bello. Bisognerebbe insegnare, innanzitutto, che l’arte non è semplice e non per forza è per tutti farla. Che la smania di protagonismo non è arte e che solo dall’impegno nasce un prodotto che si può definire “arte”.

Per Platone la bellezza è la manifestazione del bene e manifesta una verità che si sottrae al tempo: come dargli torto? Come non riconoscere che fortunatamente nel mondo esistono manifestazioni dell’ingegno artistico che nei secoli sono sempre state venerate. Allo stesso tempo, come non constatare che le attuali forme d’arte, espresse dalla comunità dei social, nascondendo un fine ludico, hanno la vita di una farfalla?
È proprio il divertimento disimpegnato la peggiore bugia: con l’attenuante della leggerezza in realtà produciamo occasioni che alimentano il brutto senza senso.

In questa doppia decadenza di contenuto e durata queste “manifestazioni” sono una sorta di fast food dell’arte che ha generato spettatori bulimici, mai sazi, che divorano contenuti, senza contenuto, ampliando il vuoto di pensiero e di bello nella mente.
Maurizio Ciccolella

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